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Il blog di Mauro Boscarol sulla gestione digitale del colore dal 1998

Nella serie Curiosità, aneddoti, storie su colore e visione

La sottocultura popolare del colore: il caso del “cyan”

Dalla metà del Novecento vengono organizzati in Italia, anche da enti di carattere religioso, corsi per apprendisti stampatori. Gli appunti che circolano tra gli studenti di questi corsi postulano una rigida divisione tra i cosiddetti “colori luce” e i cosiddetti “colori pigmenti”, due tipi di colori che vengono presentati in contrapposizione. Si dà per scontato che i “colori luce” agiscano per mescolanza additiva, mentre i “colori pigmenti” per mescolanza sottrattiva, senza una chiara spiegazione del meccanismo sottostante e senza distinguere tra colori e coloranti. Vedi su questo La sottocultura popolare del colore: il caso delle mescolanze.

Purtroppo queste scuole professionali hanno contribuito a creare una sottocultura asfittica e immobile del colore che ha dominato il campo per decine di anni. Gli insegnanti di queste scuole sono gli stessi ex allievi che perpetuano le stesse antiquate idee, le stesse nozioni sfocate, le stesse incrostazioni culturali.

Un indizio che si è in presenza di questa sottocultura è il curioso utilizzo del termine inglese cyan al posto dell’italiano ciano (siamo nel campo della stampa in quadricromia con inchiostri ciano, magenta, giallo, nero). Il nero e il giallo vengono chiamati con il loro nome italiano e non con i rispettivi termini inglesi, ma il ciano no, viene scritto cyan e pronunciato in vario modo, qualche volta alla veneta come parola tronca (ciàn) altre volte con la s perché in inglese la c si pronuncia così (sìan). La pronuncia corretta si trova qui.

Il colore ciano

“Gli inchiostri di una macchina da stampa sono cyan, magenta, giallo e nero” è la curiosa frase che si trova nei libri e nelle dispense che si scrivono e si leggono in questi ambienti, come se la parola italiana “ciano” non esistesse o fosse impronunciabile per qualche inconfessato motivo. In realtà i dizionari di italiano  (vedi Zingarelli, De Mauro) definiscono “ciano” un colore azzurro, dunque il termine esiste.

Perché le vecchie glorie della stampa e prestampa italiana usano il termine cyan invece dell’italiano “ciano”? Ciano esiste, è un normale vocabolo italiano, deriva dal greco kyanos e significa azzurro. In italiano sono usati anche gli aggettivo cianogeno, cianotico e i sostantivi cianografica, cianuro, cianosi. Però in tutti i documenti ufficiali di Taga Italia, yellow (giallo) e black (nero) vengono tradotti, mentre cyan no, rimane com’è. Bisognerebbe che qualcuno glielo dicesse, che la parola italiana esiste.

L’universo chiuso di questi circoli “culturali” ha creato, nel campo del colore, un linguaggio senza vitalità, ma bisogna ammettere che ha avuto una funzione unificante tra gli addetti al settore della stampa in Italia. Una funzione unificante che ha riunito ma che ha allontanato dai circoli (in Germania, in Svizzera, in Olanda, in Francia) in cui il tema del colore è stato affrontato modernamente, al passo con i tempi.

E a questo punto sarebbe da introdurre il tema della dipendenza culturale del mondo italiano della stampa da quelli esteri, sottolineando come l’industria della stampa sia stata per decenni (e probabilmente ancora lo è) una colonia dei produttori tedeschi (Linotype, Heidelberg), francesi (Dupont), svizzeri (Brunner) e americani, ma questo è un altro aspetto da approfondire altrove.

Speriamo che oggi, grazie anche alla diffusione globale delle informazioni, l’italiana sottocultura popolare del colore si trasformi gradualmente in una cultura aperta all’innovazione, partecipativa, conscia di quello che esiste all’esterno dei circoli intellettualmente ristretti in cui la prima si è formata.

Un’altra questione linguistica. Perché Taga Italia si ostina a usare il termine scarto tipo? L’uso di “scarto tipo” conferisce una certa aria da parvenu del mondo tecnico e scientifico. È vero che questo è il termine ufficiale UNI per indicare ciò che tutti chiamiamo deviazione standard, ma “scarto tipo”non è usato né nella pratica né nei libri, non lo usa nessuno. Nelle parole di Claudio Oleari, docente di fisica all’Università di Parma “è sorprendente (se non addirittura sconcertante) il vocabolario italiano [dell’UNI]:  l’inglese standard deviation viene tradotto con scarto tipo (N.B. che non esiste testo universitario italiano che usi questa dicitura, almeno per quanto conosco, ma tutti usano deviazione standard)”. Tutti, meno i consulenti di Taga Italia, che ci tengono a far vedere che loro “sanno”, ma così mettono ancor più in evidenza che quello di cui parlano non è roba per loro.

 

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Mauro Boscarol

16/8/2013 alle 16:54

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